Di ALBERTO PIRAS
Il titolo del suo ultimo libro ‘Il perdono responsabile. Perchè il carcere non serve a nulla’ potrebbe alimentare chissà quante polemiche. Un tema spinoso, quello dei reati e delle pene. Nell’aula dei Filosofi dell’Università, nella serata di martedì, Gherardo Colombo ha raccontato la sua esperienza di magistrato e le convinzioni che in lui si sono radicate nel corso del tempo. Un evento organizzato grazie all’Udu, che assieme alla Sirio coordina le attività di alcuni studenti universitari detenuti; l’associazione inoltre, con la fondazione Mario Tommasini, in mattinata ha permesso all’ex custode della legge di visitare i detenuti del carcere di via Burla e di confrontarsi con loro.
“Ho fatto il magistrato per 33 anni – ha affermato Colombo – volevo farlo e pensavo che, una volta applicata la pena, il carcere sarebbe stato una pena giusta e curativa. Questa convinzione è mutata nel corso del tempo e uno dei motivi è che la giustizia, in Italia, ha sempre funzionato malissimo. La rieducazione del condannato è praticamente inesistente nel nostro sistema. Per la cura psicologica non viene speso nulla e nemmeno per la riabilitazione”.
“Nella società – continua Colombo – emerge la paura. La pancia prevale e si difende dalle aggressioni mettendo il lupo in gabbia. Succede che le madri abbiano l’istinto omicida verso i propri figli, specie se sono piccoli. Distinguere i buoni dai cattivi è molto difficile“. Il ragionamento dell’ex magistrato verte su un punto: umanizzare chi ha sbagliato e operare uno sforzo intellettuale affinché si ragioni assieme sul ruolo di vittime e carnefici. I reati vengono commessi (spesso, non sempre) in un attimo di follia “ed è un rischio che in molti corrono”. Quindi Colombo ci avverte che la distanza e il confine tra buoni e cattivi è molto labile.
“Dovremmo passare dall’emozione della pancia alla ragione. Si può arrivare al bene attraverso il male? Si può rieducare lasciando le persone in carcere?” La domanda rimane nell’aria, per qualche secondo, poi la risposta: “Se così fosse non esisterebbe il male”. Mette soprattutto in discussione il codice penale, e la certezza della pena. Proprio quella certezza della pena che intende rassicurare l’opinione pubblica ma che, a suo giudizio, “non risolve nulla”. Il ragionamento è che chi sta in carcere (e non viene recuperato) ha maggiori possibilità di delinquere, perché ha a che fare con persone che non gli potranno far capire i danni, e i disagi, che quella sua azione ha comportato.
COS’E’ LA GIUSTIZIA RIPARATIVA ? – “La giustizia riparativa è un sistema di mediazione penale – prosegue Colombo – che dovrebbe essere adottato nel nostro ordinamento, addirittura l’Europa ce lo impone. Quello più noto consiste in un percorso, condotto da esperti della mediazione, in cui si porta la vittima e il responsabile a un incontro. Solo così il responsabile può rendersi conto del male causato e poterne, così, prenderne coscienza. Dall’altra, la vittima si fa due domande: perché? e perché a me? E a questa domanda può rispondere soltanto il carnefice. La pena punitiva non dovrebbe rimanere; siccome io soffro significa che voglio smettere di soffrire e si dovrebbe cercare di arrivare a questo”.
IL RANCORE – La prima obiezione che, istintivamente, viene mossa a questo tipo di ragionamenti, soprattutto riguardo alle pene e alle sanzioni da adottare nei confronti di chi commette un reato, è che c’è un rancore, una vendetta che va soddisfatta. “Il perdono non cancella il passato, comporta una relazione. Il rancore lo sente soltanto la vittima, ma la vendetta non libera, non fa star meglio. Bisogna quindi cercare il modo di far star meglio anche chi ha subito, e su questo molto spesso non si ragiona. “Bisogna fare un lavoro culturale, a partire proprio dalla scuole. E’ urgente – conclude Colombo – cercare di riformare gli adulti”.